La pandemia Covid ha segnato un passaggio storico nel mondo del lavoro, da necessità a virtù, il periodo è stato laboratorio sperimentale di mutamenti sociali e tecnologici. Il fenomeno Great Resignation negli USA ne è uno degli effetti, propagatosi anche nel vecchio continente assieme a quel movimento che viene comunemente chiamato YOLO Economy, rappresenta la tendenza al cambiamento lavorativo a favore di un migliore bilanciamento work-life.

In Italia, sebbene il legislatore parli chiaramente di lavoro Agile, si tende ad usare il termine smartworking in maniera indiscriminata e a volte erronea quando ci si riferisce ad un lavoro esercitato fuori ufficio. Parliamoci chiaro, esclusi rarissimi casi, quello sperimentato di fretta e furia durante il lockdown è stato tutto fuorché lavoro agile. Aziende e dipendenti si sono trovati catapultati all’interno di una situazione nuova e difficilmente gestibile. Nella maggioranza dei casi, il cosiddetto smartworking, si è rivelato un tele-lavoro: PC collegato (nelle migliori delle ipotesi) in VPN con l’azienda e rispetto degli orari di lavoro e pause pranzo. Non c’è stato nulla di smart o di virtuoso in questa particolare gestione del lavoro.

Ad ogni modo, passato il periodo critico, le aziende hanno iniziato a richiamare i dipendenti in ufficio, ad indicare che la misura, oltre che poco smart, era percepita di natura temporanea. La realtà dei fatti è che, durante il lavoro fuori ufficio, nei lavoratori si è creata un’abitudine e certe tendenze sono difficili da invertire. Dall’altro lato anche le istituzioni, i sindacati, e associazioni che gravitano attorno al mondo del lavoro hanno dato percezione di scarsa conoscenza della materia. Risultato? Proroghe, proroghe e ancora proroghe. Nell’attesa che tutto ritorni come prima o, peggio, nella speranza che il desiderio di autogestione dello spazio e del tempo svanisca come un temporale estivo si è preferito nascondere la polvere sotto il tappeto.

Che non ci sia (ancora) la minima percezione di cosa si intende per lavoro agile è dimostrato dall’ultimo tentativo di giustificare lo smartworking esclusivamente per i genitori con figli minori di 14 anni o soggetti fragili. L’accostamento della pratica virtuosa del lavoro agile ad una misura di welfare, alla stregua di un congedo parentale, è sintomo lapalissiano che le istituzioni sono completamente fuori rotta. Nel tentativo di salvare capre e cavoli, si mischia il sacro col profano, due materie che non hanno nulla a vedere una con l’altra.

Il lavoro agile si realizza esclusivamente con una sinergia fra azienda e dipendenti, con un rapporto di fiducia e autogestione, con una definizione di modalità ed obiettivi chiari e condivisi. Senza tutto ciò, senza considerarlo un processo, si finisce per confonderlo miseramente con tele-lavoro o peggio con un sistema di welfare che possa permettere di accompagnare i figli a scuola. Purtroppo, come successo in passato per altri grandi mutamenti, per arrivare alla meta, si dovrà passare per approssimazioni successive. Chi ha avuto la capacità o l’onestà intellettuale di abbracciare da subito il cambiamento ha, di fatto, guadagnato posizioni di mercato come “pioniere” del “nuovo mondo”.